Il mio viaggio tra i luoghi dell’Albania è uno scavare tra i segni della storia e un costante definire i tasselli di un mosaico che vive nel mio immaginario. Storia e realtà si scontrano. Non si incontrano.
I Balcani o li vivi visitandoli e camminando dentro i tagli di una geografia reale oppure restano fissi in quella pagina della memoria che memoria non è perché è soltanto immaginazione. Il mio vezzo è stato sempre quello di non immaginare un Paese soltanto per sensazioni o emozioni letterarie. Mi sono sempre sbagliato quando ho fatto questo. Il mio difetto o la mia virtù è stata sempre quella di viaggiare dentro una realtà per poi tentare di raccontare il raccontabile.
C’è una Albania che resta dentro lo sguardo e c’è un’Albania che fugge, anzi sfugge al tocco degli occhi. Ma, in verità, ci sono diverse Albanie come ci sono, chiaramente, diversi Balcani.
Ho passeggiato tra le vie di Tirana. Paesaggi che rimandano ad una meridionalità anni Cinquanta e Sessanta con un pizzico di esuberanza in più o forse di superbia perché chi vive a Tirana si sente toccato dalla fortuna del cittadino, di essere cittadino e di guardare con attenzione non più alla cultura balcanica interna, ma a quella Adriatica piuttosto italiana che mediterranea greca. Mi sono accorto che parlare di cultura contadina è quasi offendere i cittadini. I cittadini di Tirana o di Scutari hanno scelto di non avere una cultura contadina.
Non so dire se si è fortunati abitare a Tirana o in un altrove dell’Albania. Comunque, resta il fatto che il vento italiano arriva come impeto. Meno, ma non troppo, a Scutari. Oltre un’ora di auto da Tirana a Scutari. O forse più. Il tratto di strada è certamente migliorato rispetto ad un anno fa. C’è uno scorrimento più veloce e si corre impavidi. L’impatto con l’ingresso di Scutari mi lascia subito perplesso anche se mi accoglie la statua di Madre Teresa di Calcutta. Un messaggio importante, mi dico. Ma poi non è così.
Comunque lungo il tragitto da Tirana a Scutari leggo nomi familiari. Penso, tra i tanti svincoli, a Kruja. Una cittadina dove vi campeggia “Monumenti i skenderbeut”, ovvero il monumento di Skanderbeg, l’eroe cristiano che lottò contro l’impero Ottomano e difese la cristianità dell’Albania. Non mi lascio aggredire dal fascino della commozione ma resto pensieroso.
Scutari (Shkodra) non ricorda Skanderbeg. È come se la avesse rimosso. C’è una storia più recente che insiste e che si ascolta nelle voci delle moschee che non hanno l’imponenza turca ma ci sono e sembrano tracciare frontiere Qui, nonostante i salesiani, i francescani e la cultura cattolica, il mondo islamico è abbastanza presente e invasivo. Ed è presente non perché è visibile nei veli o nei visi coperti. Ben poco di questo. Ma si sente nella concezione della vita, nel rapporto tra marito e moglie, tra donna e maschio, lungo le strade, nella aule universitarie, quando si parla di letteratura. E qui in queste aule ho parlato della verità che salva, del viaggio Mediterraneo di Paolo e del suo arrivo a Roma.
Il mondo musulmano è completamente fuori dal mio modello di civiltà e della mia concezione di bellezza. Eppure Scutari è a pochi chilometri dal Montenegro e le donne che scendono dalle campagne sono ben distinguibili proprio per i costumi che indossano con portamento sicuro. Ma è una civiltà che non mi appartiene.
Qui capisco che la letteratura e l’immaginario sono ben oltre la realtà e la fisicità del luogo. Ma i giovani vogliono cambiare, vogliono andare oltre, vogliono occidentalizzarsi. Come è possibile ciò? Per fare ciò bisogna rompere una tradizione o una identità. Questo è il punto. L’eco della preghiera della moschea infastidisce ad ore stabilite. Sento un graffio sulla mia pelle: io Cristiano ed Occidentale fino in fondo. I passanti sembrano non farci caso.
Le strade sono invase da macchinoni o da biciclette. Non conoscono un punto di mezzo mentre la televisione va senza interruzioni sulle reti italiane. Ho visitato il Museo fotografico Marubi. Un altro pezzo d’Italia che racconta i costumi di Albania in una età che non c’è più. Ad una certa ora si resta senza energia elettrica.
Osservo i palazzoni. Senza stile. Sono eredità del regime comunista:mi dicono. A due passi dal mio albergo c’è il mercato dove si vendono le scarpe di secondo piede e il pesce impastato nel terriccio buttato per terra. Agli angoli degli incroci uomini con mazzette di soldi albanesi fanno da cambiavalute. Siamo ancora oltre la soglia di ciò che definiamo Occidente. È proprio vero. Ma quanta storia italiana nelle recite e nel teatro di questa città.
Cosa sarebbe stata questa città e questo Paese senza la presenza dei cattolici cristiani? Me lo domando spesso ora che sul mio tavolo da lavoro ho frammenti di foto e immagini che raccontano una realtà. Potrei viverci a Scutari? Sicuramente no anche se nel mio sangue batte un palpito di albanesità o arbrescità. È certamente diversa da Tetovo (in Macedonia) o dagli altri Balcani. Non ci sono dubbi anche se resta ancora una Paese che appesa tra le contraddizioni e i difetti. Ma quando pensiamo che tutto sia perduto è lì che nasce una nuova forza: sembra suggerirmi ancora una volta Paolo. Ma cosa fare?
L’Albania, lo sappiamo, è di fronte a noi. Non si tratta soltanto di portarli sulla nostra strada, gli albanesi. Forse occorre che la nostra presenza o la nostra parola sia più incisiva, abbia più capacità di dialogo in nome di un messaggio non solo evangelico. Ho visto il ruolo che hanno i salesiani, la loro capacità, il loro amore: quella pazienza che scorre tra le rughe della speranza e dell’attesa.
Gli Albanesi non possono fuggire. E neppure possono continuare nell’intreccio delle loro ambiguità. Noi, uomini di fede, non glielo possiamo permettere. Il mio viaggio non si ferma. Va oltre. Questo mondo albanese ha qualcosa che mi costringe a riflettere. Questi Albanesi che non sono Mediterranei e pensano di essere Adriatici e forse sono soltanto albanesi. Cosa sarebbe stata l’Albania senza la presenza dei Cristiani?
Pierfranco Bruni