Libro: “Vivo altrove. Giovani e senza radici: gli emigranti italiani di oggi” di Cucchiarato Claudia

 C’è chi parte per dimenticare, chi parte per poter scegliere, chi parte per paura e chi parte per scommessa. C’è l’insegnante di italiano che sbarca il lunario come cantante a Barcellona, l’avvocato che vive a L’Aia e vuole fare il deejay a Parigi, il veterinario romano che si adatta a fare il cameriere a Londra, il biologo di Latina che finisce a fare l’editore a Berlino…

Sono l’Italia fuori dall’Italia. Sono i giovani, sempre più numerosi, che hanno scelto di vivere lontani da casa, alla ricerca di un lavoro nuovo, o di una vita diversa. Questo libro racconta le loro storie, che sono piene di vitalità e venate di malinconia, scanzonate, tenere, in fondo preoccupanti. Sono il ritratto di un paese virtuale e di un futuro, forse, mancato: perché il paese che questi ragazzi hanno deciso di abbandonare continua a non ascoltarli.
Vivo altrove racconta le storie di giovani tra i 25 e i 40 anni che hanno deciso di lasciare il nostro paese: non solo cervelli in fuga, certi di trovare all’estero opportunità migliori, ma anche ragazzi “normali” che sentono questa Italia troppo chiusa, ferma, asfittica, immobile, rivolta solo a se stessa. Persone cresciute sentendosi cittadini del mondo, che male tollerano un paese preso in mille guerriglie interne – politiche, geografiche, sociali, ma soprattutto generazionali – e che cercano all’estero opportunità che mai avrebbero trovato in Italia.
Il libro raccoglie molte storie, ognuna con le sue particolarità e specificità, ma costituisce anche il ritratto di una generazione. Tutti i dati confermano che il fenomeno della migrazione di giovani all’estero è in continuo aumento: secondo il consorzio universitario Alamlaurea, negli ultimi dieci anni il numero di laureati che si è spostato oltreconfine per trovare lavoro è triplicato, mediamente oltre il 3,5% dei nostri laureati si trasferisce ogni anno all’estero. È difficile fare statistiche su un fenomeno in continua evoluzione come quello di cui si occupa questo libro, ma si calcola ad esempio che i giovani italiani (tra i 25 e i 35 anni) attualmente residenti a Berlino siano all’incirca 6.000 e quelli residenti a Barcellona da meno di cinque anni siano circa 10.000.
Potremmo chiamarla “generazione Europa”, decine di migliaia di giovani che si spostano, prediligendo le grandi città e le capitali, le cosiddette “Eurocities”, dove approdano e da dove molto spesso ripartono, non alla volta del Belpaese, ma verso nuovi paesi e nuove esperienze.
Un generazione liquida.

IL FENOMENO

Dall’introduzione di Vivo altrove:
Tutte le storie che si trovano in questo libro potrebbe raccontarle una mappa. Quella dell’Europa unita. Ma anche quella delle rotte aeree, ferroviarie, marittime. Le rotte che in tanti hanno seguito nei secoli scorsi. E che continuano a seguire, oggi, i nostrani viaggiatori inquieti, eredi della diaspora del Novecento. Questo libro parla di loro. Di giovani italiani in viaggio, con una mappa in tasca. Non di cervelli in fuga. Non solo e non necessariamente. Parla di persone, spesso laureate, che prendono un volo low-cost, una nave o un treno e oltrepassano i confini del nostro paese con poche cose nello zaino e molte aspettative in testa. Non hanno la valigia di cartone, sono ben diversi dai protagonisti del “grande esodo” a cavallo tra Ottocento e Novecento, e non vedono l’espatrio come un obbligo. È una scelta. Scelgono coscientemente, puntando il dito sulla cartina, di andare altrove. E poiché la loro è una rotta incerta, molto spesso casuale, si è deciso di seguirli secondo un ordine spaziale, più che causale. Li ritroverete come in una mappa, sparpagliati e in continuo movimento tra i quattro angoli di un continente dai confini fluidi. Nomadi in uno “spazio globale” la cui progressiva interconnessione erode i concetti stessi di frontiera, stato o territorio nazionale.L’Italia è uno degli stati occidentali più colpiti dall’esodo dei giovani talenti. Si dice colpito, non beneficiato, perché esporta in dosi massicce e importa in misura infinitamente inferiore. Secondo uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti diffuso a maggio del 2009, l’Italia è la nazione europea che meno attrae i laureati stranieri. Solo lo 0,7% dei 20 milioni di “talenti” che migrano tra i paesi dell’OCSE decide di venire a cercare lavoro qui.
[...] Sono cervelli in fuga, ma non solo. Sono i “neo-migranti”, gente che parte “per dimenticare”, per lasciarsi alle spalle un paese che sta stretto, che non piace. Gente che vorrebbe cambiare l’Italia, ma non sa come fare e non sa se potrà farlo in futuro. E quindi cambia paese, se ne va, alla ricerca di maggiori stimoli o di un’alternativa.

Un riflessione sul concetto di “dispatrio”, di Alessandro Mistrorigo, professore universitario a Londra, tra i protagonisti di Vivo altrove:
Vivo altrove: tra dispatrio e dislocamento
In Vivo altrove si raccolgono le testimonianze di molti giovani italiani che negli ultimi anni hanno deciso di andare a vivere all’estero cercando di raccontare un fenomeno che esiste già da qualche anno. Io stesso sono uno di quei molti “emigranti” che hanno condiviso con Claudia Cucchiarato la loro esperienza riguardo alla vita fuori dal nostro paese. Ma non è per raccontare di me che ho deciso di scrivere queste righe; piuttosto per proporre uno spunto e magari aprire una discussione su questo fenomeno di cui siamo parte spesso inconsapevolmente. Le mie sono alcune idee che ho già espresso a Claudia in altre occasioni. Spero davvero che possano essere utili come strumento per pensare e pensarci.
Vorrei partire da una citazione da Il dispatrio (Rizzoli, 1993) di Luigi Meneghello dove si legge: «In Italia le cose si erano messe male. Si veniva instaurando un regime che consideravo nefasto, e il panorama culturale mi sembrava particolarmente deprimente. Si sentiva nell’aria l’arretratezza della nostra cultura tradizionale, comune matrice degli indirizzi più palesemente retrivi a cui si appoggiava il nuovo regime, e di quelli velleitari e in parte spuri che cercavano di contrastarlo. E lì in mezzo si distingueva appena il nucleo striminzito delle idee e delle cose che approvavo: parzialmente santo ai miei occhi, ma striminzito. Ero convinto invece che “fuori” ci fosse un mondo migliore, migliore non solo di qualche grado, ma incomparabilmente. E la chiave era la cultura dell’Europa moderna […]»
In realtà, queste parole, scritte ormai diciassette anni fa, non mi interessano per le ragioni specifiche che una persona può avere in un particolare momento storico per decidere di lasciare il proprio paese. Le ragioni possono essere sempre diverse oppure non cambiare mai. Quello che mi sembra invece interessante è la percezione del “fuori” nel ricordo di un uomo, di un intellettuale, che aveva vissuto e lavorato più di trenta anni lontano dal paese di origine. Il ricordo è quello dell’Italia del dopoguerra. Il paese, quello che il giovane Meneghello aveva lasciato molti anni prima convinto che “fuori” ci fosse un mondo incomparabilmente migliore. Oggi sembra che la storia si ripeta e che siano molti i giovani italiani che potrebbero in qualche modo ritrovarsi in quelle stesse parole.
Rileggendo quel libretto costruito a partire dai ricordi di una vita vissuta altrove, è davvero difficile non pensare alla condizione di quelli che in questi anni stanno vivendo “fuori”, all’estero, da emigranti. In un vero e proprio dispatrio, spesso non riconosciuto né propriamente definibile a causa della facilità degli spostamenti e la fluidità dei confini dell’Europa contemporanea. A questo punto è utile ricordare che, anche se non esplicitamente, Meneghello ha sempre pudicamente differenziato la sua condizione di “dispatriato” da quella più problematica che deriva dall’esilio. Forse, come era sua abitudine, per non prendersi troppo sul serio. O forse perché il termine indica qualcosa di profondamente diverso: quel dis suggerisce un’idea di “altro”, di separato, che il termine “esilio” identifica subito in un luogo ben preciso, quel suo ex, il “fuori”.
Nel senso propriamente meneghelliano, allora, il dispatrio sarebbe quello di chi sta “fuori” ed è sempre presente a questa sua condizione, la vede e la sente continuamente al di fuori di sé, nei luoghi e nella lingua, nel suo vivere quotidiano, in quel senso profondo di dislocamento che è prima di tutto un fatto fisico e poi anche più ampiamente culturale. Questo è ciò che traspare in Vivo altrove. Eppure questa visione potrebbe essere parziale. Uno sguardo che si dirige solamente al “fuori”, infatti, è incompleto: ogni prospettiva che va verso l’esterno implica sempre un punto di fuga interno e quindi anche un “dentro”, spesso invisibile. D’altro canto, uno sguardo che tenesse conto di entrambe le direzioni segnalerebbe anche un dislocamento interno, o interiore. Sto pensando alla condizione di chi non si riconosce in ciò che vede e sente al di fuori di sé nonostante viva dentro un luogo già familiare: la condizione di chi è lontano o dispatriato da “dentro”.
Il mio è senza dubbio uno sguardo strabico che suggerisce l’idea che si possa vivere da dispatriati in varie situazioni differenti, non solo nel migliore dei “fuori” possibili. Non solo: sovrapponendo le inquadrature, questo strabismo crea l’immagine di una condizione indipendente da dove sia l’origine e la meta del nostro viaggio; indipendente dal luogo delle nostre origini, dalla nostra stessa casa. Un sentire che esiste anche quando siamo nel nostro paese. La strana sensazione di non sentirsi mai là dove si è. Una condizione che forse nasce dalla sovrapposizione di nostalgia e nausea. Non so. So però che queste considerazioni potrebbero portare a pensare a questo dispatrio come a una condizione più generale, non solo di quelli che se ne sono andati, ma anche di coloro che sono rientrati e forse addirittura di qualcuno che non è mai partito.


Fonte: vivoaltrove.it

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