La Calabria del vino, alla luce dei risultati più o meno soddisfacenti che si sono registrati nell'ultimo decennio sia sul territorio italiano che in quello estero, si sta interrogando in questo periodo sulle sue prospettive future, sugli indirizzi produttivi da intraprendere, sulle scelte tecnologiche da adottare e soprattutto sui nuovi investimenti da effettuare in vigna.
Le potenzialità che questo territorio esprime da sempre, infatti, hanno finito per suscitare l'interesse di una buona parte del mercato europeo solo da un po' di tempo a questa parte, grazie ai segnali di innalzamento del livello qualitativo di almeno una diecina di etichette di qualità.
Tutti vini calabresi prodotti con uve che in molti casi sono dotate di caratteristiche primarie davvero notevoli: acini ricchi di zuccheri, con buona presenza di antociani, con tannini nobili, ricchi di estratti, con grappoli spargoli e acini piccoli.
Non solo rossi o rosati di pronta beva, dunque, ma anche «Classici» e «Riserve» (che sono le tipologie che cultori e buongustai amano di più) capaci d'invecchiare, migliorando negli anni.
La Calabria, fra l'altro, è una regione produttrice pure di numerosi vini bianchi, freschi e beverini. Peccato che nell'ultimo decennio la stragrande maggioranza dei viticoltori abbia preferito «allevare» vitigni non autoctoni come, ad esempio, lo chardonnay e il prosecco. «Un grave errore», secondo alcuni esperti enologici italiani, che peraltro - in qualche occasione - avrebbe contribuito a far dire ai produttori di Valdobbiadene che, in questo genere di produzione, sono loro i «veri maestri».
Possiamo dargli torto? Che senso ha avventurarsi in produzioni non tradizionali quando si sarebbe potuto tranquillamente potenziare l'impianto di un vitigno prettamente calabrese di gran lunga superiore?
Nessuno ha mai pensato che imitare a tutti i costi un vino già esistente (o quantomeno cercare di avvicinarsi al suo gusto) non porta da nessuna parte?
La Calabria - e questo dovrebbe essere motivo d'orgoglio! - vanta vitigni autoctoni di grandissimo pregio che, per questioni climatiche, già di per sé, nessuno si azzarderebbe mai d'impiantare nei vigneti del Nord. È il caso del nobile e secolare vitigno Greco.
La tradizione vuole che ad importarlo su queste terre (già nell'ottavo secolo prima della venuta di Cristo) furono proprio i greci. Da esso, poi, nacquero varietà, altrettanto note, come il grechetto e il grecanico. È un vitigno che dà vita a grandi vini sia rossi che bianchi. Nettari eccellenti che, già in epoca latina, furono celebrati a dovere. Piacevano molto a consoli, imperatori e generali vittoriosi.
Pensate un po': il vino ottenuto unicamente con uva greco (quella stessa uva che Plinio il Vecchio definì nei suoi scritti «Caudia vulpium», per la forma dei suoi grappoli, e che gli stessi Romani ribattezzarono «Anima gemella») già a quei tempi riusciva tranquillamente ad invecchiare per decenni (e, secondo qualche storico, addirittura, anche per oltre mezzo secolo), acquistando eleganza e complessità.
Sul Greco sono note finanche le citazioni di Virgilio che trovò modo di esaltare a più riprese il bianco vino di Calabria.
La sua antica fama, la reputazione di questo monovitigno, pian piano col tempo, poi però cominciò ad appannarsi, per una serie di motivi. Memorabili, nel secolo più recente, quelle che riguardarono la fillossera e l'abbandono dell'agricoltura.
Di certo si sa che i greci antichi coniarono il termine Enotria proprio riferendosi ai vigneti calabresi e che gli atleti brindarono alle loro vittorie con un vino detto «Krimisia».
Che dire? A tutt'oggi, soltanto pochi vinicultori in Calabria si sarebbero resi conto delle enormi potenzialità di questo storico vitigno.
I critici enologici che contano (in Italia e nel mondo) stanno sempre più rimarcando con entusiasmo lo status storico del vitigno greco. I vini, prodotti da esso, piacciono e stupiscono, stimolano l'interesse di tutti per una varietà di gusto non trovabile in nessun altro vino del mondo.
Cosa che inorgoglisce tutti i calabresi sparsi in ogni angolo del globo, sempre più fieri delle loro origini e della storia plurimillenaria di questa regione che i greci chiamarono Enotria, terra del vino; un nome che solo in un secondo tempo, poi, si estese all'intera penisola, come peraltro avvenne col nome «Italia».
-
Vincenzo Pitaro • Gazzetta del Sud, pag. Cultura, di giovedì 6 ottobre 2011