Il crollo di un’epoca o gli dei hanno volato alto come le aquile che cercano il sogno e la fantasia e incontrano la storia e tra gli intrecci delle cadute e dei trionfi passati c’è la recita della letteratura. Di una letteratura che va fatta e poi “bruciarla” “Vivere e bruciarsi. Concedersi astratti furori, rinunciare a essere un eroe, ma rivendicare d’esser vivo: questione della non speranza”.
Forse è intorno a pensieri – labirinto che il romanzo di Mauro Mazza (oggi direttore di Rai Uno, dopo una lunga carriera giornalistica, è stato direttore del Tg2, e dopo la pubblicazione di testi come “L’inquietudine di un secolo” dedicato a Giovanni Papini) dal titolo: “L’albero del mondo. Weimar, ottobre 1942” (Fazi Editore, pp. 160, euro 16,00, con una bella copertina elaborata graficamente da Manuela Sain) si intreccia sia alla fantasia che al mistero, vive la sua estetica lucidità e il suo esuberante sacrificio che viene affidato a due scrittori italiani, Elio Vittorini e Giame Pintor.
Si incontrano a Weimar, al congresso (o al raduno) degli scrittori europei che è stato voluto e organizzato dal progetto propagandistico nazista sotto l’indirizzo addirittura di Joseph Goebbels. Qui la letteratura diventa la scrittura della vita nella contestualizzazione di civiltà. E si incontrano o si ritrovano scrittori provenienti da diversi Paesi. Il terzo protagonista, insieme a Vittorini e a Pintor è lo stesso Goobbels. Ma accanto agli scrittori italiani, che nel 1942 per la gran parte si considerano “intellettuali” sotto le linee del Bottai di “Primato” che sviluppa dibattiti articolati e di straordinario spessore culturale, ci sono come metafore di voci narranti e non solo protagonisti e testimoni due grandi della Francia che ha recitato il destino della caduta: Pierre Drieu La Rochelle e Robert Brasillach.
Il primo suicidatosi il 13 marzo del 1945, il secondo fucilato sempre nello stesso anno, il 6 di febbraio. Il destino della caduta inteso come il destino di un esilio interiore e non di una sconfitta. Soprattutto quando si racconta di Goebbels, morto suicida il 1° maggio del 1945 e dei due francesi citati. Chi sopravviverà al destino della tragedia sarà Elio Vittorini che con la sua visione di istrione mostrerà, nei suoi romanzi e soprattutto nel suo incontro scontro con il comunista Togliatti, i suoi “astratti furori”. Giame Pintor morirà con gli Alleati il 1° dicembre del 1943 incappato in una mina.
Non è l’avventura di un intreccio di culture. È la tragedia di una civiltà che ha cercato nella lettura una attesa, un vissuto di pazienza, un incontro tra le verità, le certezze e il destino. E l’Albero del Mondo è l’attesa oltre la speranza o la speranza che rinuncia all’attesa?
A Weimar giungono duecentocinquanta scrittori. E nei luoghi che sono stati i tessuti geografici e umani di Schiller e Goethe Vittorini e Pintor incontrano lo sguardo di Goebbels che non sorprende i poeti e gli scrittori partecipanti per il suo forte senso della tragicità dentro la parola. Forse Nietzsche avrebbe rivisto o avrebbe riscritto il suo “Al di là del bene e del male”. Mauro Mazza non riscotruisce ma definisce un viaggio sia attraverso i segni di una realtà che resta tra le pagine di una vita fattasi storia sia grazie al gioco delle parti che, in un prirandelliano squarcio, innesta quella maschera che è la recita della fantasia.
Non è soltanto la fantasia l’altra componente ma la maschera dentro il teatro dei personaggi che sembrano centomila ma vivono, nello scenario di Weimar, come se fossero tutti in cerca d’autore tranne quelli che la letteratura la siglano con il sangue e con il mistero della loro consapevolezza. Tra questi Brasillach e La Rochelle.
Il racconto si dipana lungo un percorso meta-romantico che significa esistenziale e decadente come se ci si assentasse, a volte, dal dramma che lacera coscienze e civiltà ed è come se in quel labirinto restassero impresse le parole di Goethe: “Per chiarire il mistero/ho trovato la chiave…”.
In fondo il raduno di Weimer è la costante ricerca della chiave di un mistero. Cosa ci faceva la “covata” Bottai a Weimer? Il viaggio. Ma sì quel viaggio “Non dovrebbe finire mai. La meta dovrebbe sempre avvicinarsi senza farsi raggiungere. Andare e andare ancora. La vita è cercare senza mai trovare pace e riposo, che somigliano alla morte. Vedere il mondo, ecco la bellezza del passaggio su questa terra…”. Ma a Weimar cosa si consuma tra le parole e i sentimenti dello scrittore? “La quiete della non speranza”.
Siamo in quel “destino dei grandi” che non convivono con le illusioni ma con la quiete della follia che non si ancora alla verità e tanto meno alle spine della certezza ma al destino che interagisce metaforicamente con il mistero che avvolge e travolge. Nella letteratura come nella vita. Il passo nella tragicità è un crinale d’anima che Goebbels affida ai suoi “Diari”: “Noi passeremo alla storia come i più grandi uomini di Stato di tutti i tempi. O come i più grandi criminali”.
E si racconta la storia di quel tempo. E si raccontano gli scrittori nei loro pensieri e nella loro presenza. Si vedrà dopo che ci sarà divergenza tra il pensiero e l’azione, tra il pensiero e la parola nella testimonianza. Dopo. Anche se la complessità del dramma si riassume in una frase di Pavese citata, per l’occasione, da Vittorini: “Il mio amico Cesare Pavese, lo conoscete? Pavese dice che la guerra ci è cresciuta dentro perché l’abbiamo coltivata. Ci siamo detti o abbiamo pensato che fosse giusto così… se la guerra doveva venire, che venisse pure (…) Nessuno di noi è innocente. Siamo tutti colpevoli”.
Quel “fascismo” che “nasceva dal solco dell’Italia” riecheggia nel raduno degli scrittori e il solco è dentro i segni di una civiltà italica che fa gridare al fascismo immenso e rosso? Ma tra Brasillach e Vittorini qual è la differenza? L’uomo e lo scrittore? E tra Montale e La Rochelle? Vittorini continua le sue “conversazioni” che vogliono mostrarsi come confessioni ma tali non sono e Brasillach con il Cristo sul cuore viene fucilato. Montale vince il premio Nobel e La Rochelle si suicida per il crollo di un destino al quale aveva affidato la sua coerenza.
È il romanzo nel quale si rintraccino le coerenze e Mauro Mazza ha il coraggio di sottolineare il rischio delle scelte. Ma se agli scrittori non si concede il rischio che hanno tra le mani e tra le mani le parole spezzate i loro libri restano mancanti di vita. C’è la finzione che non viene trafitta dalla fedeltà e c’è la bugia che diventa miserevole. Ma qui c’è la fedeltà ad un destino. Una distinzione mai velata intorno all’Albero del Mondo. Realtà e metafora di un sogno o di una storia che hanno bisogno del tempo per essere raccontata e anche dimenticata come ricordo perché a far da scenario è la memoria delle civiltà.
Mazza, con quella sapienza greca e latina, non traspira si immerge in un viaggio che è quello della sua anima nella fantasia che lo accompagna e accompagnerà, mai lacerando le tragedie, i lettori. E forse il segreto, soprattutto di questo libro e della magia della parola pur nella durezza dei fatti, sta in quella dedica che apre il romanzo: “A Manuela, che ha preso in consegna la mia vita, e io la sua”.
Certo i lettori vi scavano il proprio sentiero e vi cercano ciò che hanno già nel cuore. Ma nella fedeltà della coerenza la letteratura diventa vita ed è come “rinunciare a essere un eroe, ma rivendicare d’esser vivo: la quiete della nostra speranza”. Nell’uomo lo scrittore non dimentica il “destino dei grandi”. Nella storia, nella letteratura, nella vita. Un romanzo che vive il senso della vita come il senso della morte nella speranza, però, che diventa porto oltre le ombre.